Assenza ingiustificata: le conseguenze.
L’assenza ingiustificata dal posto di lavoro giustifica il licenziamento.
Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza n. 2993 del 1 febbraio 2023. Che in questo modo dà il consenso ai datori di lavoro a licenziare i propri dipendenti a causa di un’assenza ingiustificata.
Rilevato
- che, con sentenza del 14 dicembre 2020, la Corte d’Appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, confermava la decisione resa dal Tribunale di Sassari e rigettava la domanda proposta da R.M.S. nei confronti dell’Azienda Territoriale Salute Sardegna avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare intimato alla S. dall’Azienda datrice per risultare dall’ordinanza del GIP di Sassari, resa nel procedimento penale avviato a carico della dipendente, essersi la medesima resa responsabile di falsa attestazione della presenza in servizio;
- che la decisione della Corte territoriale discende dall’aver questa ritenuto sussistere plurimi elementi fattuali idonei a comprovare la condotta contestata, irrilevanti i mezzi di prova non ammessi dal primo giudice pronunziatosi perciò correttamente e così non assolto l’onere gravante sulla lavoratrice di dimostrare le circostanze idonee ad escludere il già provato inadempimento, violato dunque l’art. 55 quater d.lgs. n. 165/2001 e proporzionata la massima sanzione inflitta trattandosi di fatti e modalità idonei ad incidere sul vincolo fiduciario; che per la cassazione di tale decisione ricorre la S., affidando l’impugnazione a tre motivi, cui resiste, con controricorso, l’Azienda Territoriale Salute Sardegna;
Considerato
- che, con il primo motivo, la ricorrente, nel denunciare la violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. in una con il vizio di motivazione, imputa alla Corte territoriale di essersi pronunciata a prescindere dall’allegazione e prova dei fatti oggetto del giudizio e di aver pertanto argomentato la propria decisione sulla base di una motivazione soltanto apparente; che, con il secondo motivo, denunciando, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., 5, I. n. 604/1966, 116 c.p.c. 651, 651 bis e 652 c.p.p., la ricorrente lamenta a carico della Corte territoriale il malgoverno delle regole in materia di onere della prova avendo la Corte medesima disatteso la direttiva che impone l’inversione di quell’onere a carico del datore di lavoro, insuscettibile di ritenersi assolto con riferimento all’ordinanza con la quale nel procedimento penale è disposta una misura cautelare, inidonea a fare stato nel processo civile;
- che, con il terzo motivo, rubricato con riferimento alla violazione e falsa applicazione dell’art. 2700 c.c., la ricorrente lamenta la non conformità a diritto del convincimento espresso dalla Corte territoriale, in relazione al quale la Corte stessa ha poi ritenuto di circoscrivere l’accertamento istruttorio, per cui farebbero fede fino a querela di falso non solo i fatti asseverati dagli agenti di polizia giudiziaria, pubblici ufficiali, ma anche l’apprezzamento dagli stessi compiuto circa la rilevanza penale di quei fatti in base ai quali è stata poi emessa l’ordinanza cui fa riferimento la contestazione di addebito elevata a carico della ricorrente;
- che contrariamente a quanto si legge a pagina 4 della motivazione della sentenza impugnata, che in tal senso va corretta ex art. 384 ultimo comma cod. proc. civ., gli atti delle indagini preliminari non sono muniti di fede pubblica privilegiata.
- che, infatti, se è vero che ai fini dell’accertamento d’una giusta causa di licenziamento il giudice del lavoro può valutare gli atti delle indagini preliminari comprese le intercettazioni telefoniche ivi assunte, anche ove ne sia mancato il vaglio critico in sede dibattimentale (cfr. Cass. n. 5317/17), nondimeno questi non sono vincolanti né sono muniti di fede pubblica privilegiata sino a querela di falso, dovendosi sempre consentire all’incolpato di fornire prova contraria alle risultanze delle indagini penali ancora non accolte in un giudicato penale (giudicato che nel caso in esame non risulta);
- che neppure nel processo penale i verbali delle attività di polizia giudiziaria hanno il valore probatorio privilegiato di cui all’art. 2700 c.c. (v. Cass. pen. n. 1361/2019), di guisa che le contestazioni circa il loro contenuto non richiedono la presentazione di querela di falso, ma sono definite nell’ambito del processo penale medesimo, alla stregua di ogni altra questione, con i limiti di cui all’art. 2, comma 2, cod. proc. pen.; – che sempre restando in tema di giurisprudenza penale di questa S.C., come statuito, da ultimo, da Cass. pen. n. 30225/21, la natura di documenti dotati di fede privilegiata va riconosciuta a quei contenuti documentali che, in quanto emessi da pubblico ufficiale autorizzato dalla legge (o da regolamenti oppure dall’ordinamento interno della pubblica amministrazione) ad attribuire all’atto medesimo pubblica fede, presentino i requisiti dell’attestazione da parte del pubblico ufficiale, de visu o de auditu, di fatti giuridicamente rilevanti e della formazione dell’atto nell’esercizio del potere di pubblica certificazione (v. anche Cass. pen. n. 37097/2011);
- che in altre parole, la circostanza che l’atto provenga da pubblico ufficiale investito di potestà certificativa non basta ex se a conferire all’atto stesso l’idoneità a fare fede fino a querela di falso, ma occorre che abbia un particolare contenuto concernente l’opera propria del pubblico ufficiale, vale a dire quanto da lui attestato come fatto, rilevato od avvenuto in sua presenza;
- analoga è la giurisprudenza civile di questa S.C.: cfr., ad esempio, Cass. n. 1384/97, secondo la quale i verbali della polizia giudiziaria fanno fede fino a querela di falso a norma dell’art. 2700 cod. civ. per quanto attiene alle dichiarazioni delle parti che il pubblico ufficiale, riproducendole nel verbale, attesta come rese in sua presenza, mentre resta affidata alla libera valutazione del giudice di merito l’intrinseca veridicità di dette dichiarazioni;
- che come l’atto pubblico non fa prova sino a querela di falso dell’intrinseca veridicità delle dichiarazioni pur formalmente dal pubblico ufficiale “ricevute” in tale veste, vale a dire delle dichiarazioni che il privato gli abbia consapevolmente rivolto e che il pubblico ufficiale abbia il dovere di giuridico di documentare, a maggior ragione non fa prova dei meri altrui comportamenti semplicemente osservati dal pubblico ufficiale e documentati in atti di indagine di polizia giudiziaria; che, ciò precisato, va, tuttavia, rilevato come tutti gli esposti motivi, i quali, in quanto strettamente connessi, possono essere trattati congiuntamente, devono ritenersi infondati, basandosi la pronunzia della Corte territoriale sull’accertamento che la Corte medesima ha direttamente operato circa le oggettive divergenze tra quanto osservato dagli agenti investigativi durante i tre mesi di indagine e quanto risulta da tabulati di presenza della ricorrente, dai quali risulta la costante presenza della medesima anche nelle occasioni in cui la stessa ha ammesso di essere uscita per esigenze di servizio, così asseverando le mancanze contestate riconducibili alla falsa attestazione della presenza in ufficio e dal quale ha correttamente desunto l’idoneità delle stesse, per la loro pluralità in un arco temporale contenuto, ripetitività, gravità e durata, a pregiudicare l’affidamento dell’Azienda sanitaria datrice sul corretto adempimento delle prestazioni future ed a legittimare così l’irrogazione della massima sanzione espulsiva; che, pertanto, il ricorso va rigettato;
- che le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 5.000,00 per compensi oltre spese generali al 15% ed altri accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.